mercoledì 27 maggio 2020

QUARANTINE


Fermi, immobili.
La vita a prendere polvere nell’angolo dove si depositano le cose messe in disparte.
Asettica per prevenire infezioni (e incapace di suscitare emozioni).
Cosa ti manca?
La realtà che ti coglie alla sprovvista e ti abbaglia. Quando la vita è come una febbre.
Gli eventi inattesi che superano l'immaginazione, un solo sguardo che ti brucia la mente, le storie che allagano la città.
Quelle che ti sfiorano appena e quelle che ti travolgono.
Dieci anni fa, quando ancora mi imbarazzava fotografare la gente, prendevo nota dei ritratti che non avevo il coraggio di fare.
Cercavo di esercitare la mia capacità di entrare in contatto, prima di studiare le inquadrature.
Già, il contatto.

  Milano, Duomo. Gennaio 2010.
Cappello rosso con visiera. I capelli grigi e crespi escono fuori dal cappello, senza nessun ordine.
Pedala su una bicicletta modificata con gadget incomprensibili.
Lentamente.
Si ferma a guardarmi per minuti interminabili. Cerca nella memoria. Poi va via. Lentamente.
Mi ha incontrata la sera prima, abbiamo parlato.
E’ schizofrenico. Mi aveva detto che non sa mai se è reale chi si trova di fronte.

martedì 12 maggio 2020

JOKER # recensione



Quando sono uscita dalla sala sono rimasta stordita a lungo. Non meditabonda, proprio stordita, come se qualcosa mi avesse attraversato.
Si è scritto che un film così negativo era fuori luogo, quasi un voler giustificare la follia omicida. Io ho visto esattamente il contrario: una grave condanna alla violenza in ogni sua forma e le dirette conseguenze.
Dall’abbandono delle istituzioni, agli abusi sui minori, dalla violenza fisica a quella psicologica che tutti possiamo subire e commettere con l'indifferenza, la mancanza di gentilezza, l’assenza di empatia. Il tutto, a mio parere, raccontato con grande maestria di ogni reparto.

"Io non sto chiedendo niente, volevo solo un po’ di gentilezza, un abbraccio! Ma cosa avete tutti si può sapere?"

L’apertura, con un lunghissimo primo piano di Arthur in preda ad una risata psicotica, ci proietta subito in una dimensione di disagio disturbante che ci rimarrà addosso anche dopo la proiezione.
Noi siamo Arthur Fleck, per tutto il film. Senza fare uso dell'escamotage tecnico della soggettiva, sceneggiatura, regia e fotografia ci costringono a entrare nella sua testa e rimanerci. Senza vie d’uscita, come lui.
WE ARE ALL CLOWN.

“Sono io….oppure tutti gli altri stanno impazzendo?”
“C’è tensione. Le persone sono provate, tempi duri". Arthur accenna un sorriso sarcastico.

Come se fosse una giustificazione all’essere ostili, sgradevoli, abusanti.
Chi è il pazzo? Lui o chi l’ha fatto diventare tale?
Il dolore è stampato nella filigrana delle cose dal primo fotogramma. Senso di soffocamento, buio, mancanza d’aria, colori acidi. Il corpo di Arthur, spesso esposto nella sua nudità grottesca, appare ferito anche quando non subisce percosse. Le posture innaturali che Phoenix assume e la magrezza eccessiva, incidono il disagio nella materia di un'anima che non conosce nutrimento. Da sempre e per sempre.
Ma…è condannato a ridere, a far finta di essere felice, nonostante tutto. La risata psicotica fuori controllo si innesca nei momenti in cui l’ingiustizia diventa troppo forte da sopportare, è la misura della tragedia.
PUT ON AN HAPPY FACE.

L’abuso scorre silenzioso come sangue guasto nelle inquadrature claustrofobiche.
Nelle pieghe di quelle stanze desolate, è innominato, sotterraneo, immutabile, mentre la tv accesa rischiara una speranza più dolorosa dell’abuso stesso: la speranza disattesa che qualcuno o qualcosa spezzi il copione e sovverta tutto.
Ma non c’è. Buca delle lettere vuota. Ancora invisibile.

"Lei non mi ha mai ascoltato. Le ho detto che per tutta la mia vita non ho mai saputo se esistevo veramente. Ma esisto.”

Arthur subisce senza conoscere difesa, rabbia, reazione. Nel momento in cui acquisisce la consapevolezza, oltrepassa la soglia e restituisce la violenza.
Fosse una canzone sarebbe il momento in cui la musica è ridotta al silenzio per poi esplodere in un rabbioso assolo che graffia l’aria, rompe le corde.

"Ho ucciso quegli uomini perché erano orrendi. Tutti sono orrendi oggi. Abbastanza da far impazzire chiunque"

Dopo il primo omicidio avviene un corto circuito, nella stanza tetra in cui si è rifugiato comincia a danzare. Quel corpo rigido, ingabbiato nelle sue stesse ossa, accenna movimenti fluidi, leggeri, quasi solenni. Per la prima volta la camera si schioda dal cavalletto e segue ipnotizzata i movimenti dell’attore. Una scena di un’incredibile tragica bellezza.
La danza, riproposta sempre più elaborata dopo ogni vendetta, diventa un contrappunto alla sua trasformazione. Avesse trovato un altro sbocco sarebbe diventato un simbolo positivo, ma la rivincita la trova nella violenza che a sua volta lo porta a distruggere e venire distrutto. Diventa Joker. Un eroe negativo, una sorta di messia nero degli ignorati, degli abusati. La magistrale sequenza in cui viene tirato fuori dalla macchina della polizia, richiama quella della deposizione di Cristo dalla croce.
Mentre Joker viene acclamato dai suoi seguaci e Gotham brucia sotto un delirio distruttivo, i coniugi Wayne vengono uccisi davanti a loro figlio.
Il bambino rimane in piedi a fissare i genitori assassinati: è Bruce Wayne, il futuro Batman. Lui, per via di questo episodio, sceglierà di combattere le ingiustizie diventando un eroe positivo.
In queste due scene alternate c’è la chiave di tutto: LA SCELTA.

Siamo tutti Arthur Fleck. Chi più, chi meno, ha subito qualcosa. A volte ferite che non conoscono sutura. E da qualche parte ognuno ha trovato forse una rivincita, un motivo per danzare, essere leggeri.
Ma ogni giorno scegliamo se diventare Joker a nostra volta o interrompere la spirale di mancanza d’empatia che ci circonda e che sempre genera mostri.